Le politiche del lavoro nella “grande crisi”
Dal 2007 i paesi europei e gli Stati Uniti si trovano a vivere una delle più grandi crisi economiche mai avvertite nella storia dell’umanità la cui portata sembra superare anche quella che drammaticamente coinvolse il mondo occidentale nel 1929.
In questo difficilissimo contesto gli stati europei hanno posto in essere una serie di iniziative anche nell’ambito delle politiche del lavoro per attenuarne gli effetti drammatici; i risultati si sono subito ben evidenziati almeno in termine di aumento della disoccupazione che, rispetto alla perdita di PIL registrata nei singoli stati, appare decisamente contenuta (con la sola eccezione della Spagna).
Non altrimenti può dirsi degli Stati Uniti dove la disoccupazione tra il 2007 e il 2009 si è praticamente raddoppiata passando da 7 a 15 milioni di lavoratori, così da coinvolgere il 10% della forza lavoro.
Questi dati, a fronte di una diminuzione del PIL statunitense più modesto rispetto a quello europeo, si spiegano anche nella mancanza nel sistema americano di validi ammortizzatori sociali e di efficaci strumenti di protezione dei lavoratori; la completa deregulation nei rapporti di lavoro ha infatti consentito notevole flessibilità in entrata ma anche possibilità di licenziamenti in massa a volte ben oltre le effettive esigenze aziendali, con conseguente diminuzione dei costi e aumento della produttività del lavoro (e anche dei profitti delle imprese).
La risposta dei paesi europei, invece, è stata quella di privilegiare e intensificare le politiche di salvaguardia del lavoro, sia con l’uso di strumenti “passivi”, quali la cassa integrazione, l’aumento dell’indennità di disoccupazione parziale a seguito di riduzione dell’orario di lavoro, l’erogazione di trattamenti di sostegno al reddito, l’incentivazione al prepensionamento, che di strumenti attivi, come la formazione, l’incentivazione all’occupazione attraverso sovvenzioni dello stato, l’aumento degli organici nelle strutture dedicate all’orientamento, la consulenza e l’intermediazione del lavoro.
Se però vi è una sostanziale uniformità degli strumenti utilizzati ben diverse sono le risorse impiegate per ognuno di essi e ciò a sottolineare le diverse situazioni economiche delle singole nazioni.
La Germania che è interessata a fenomeni di perdita d’occupazione solo in alcuni settori, a fronte di una situazione occupazionale sostanzialmente stabile, ha infatti maggiormente investito rispetto agli altri partners europei, in politiche attive, tese cioè ad implementare la mobilità dei lavori verso comparti produttivi più solidi; pertanto ha concentrato grandi investimenti nella formazione e nell’aumento degli organici dell’Agenzia Federale per l’Impiego pur ovviamente perseguendo anche scelte di sostegno al reddito.
Opzione diversa da quella seguita da altre nazioni quali l’Italia o la Spagna in cui invece si registra (purtroppo) una diminuzione della domanda di lavoro; in questo contesto, dunque, come osservato anche dal prof. Boeri, è parso più coerente privilegiare scelte di sostegno al reddito rinviando ad una fase (auspicata) di crescita interventi quantitativamente più sostanziosi di politica attiva.
Seppure gravose le scelte compiute dagli stati europei hanno contenuto l’impatto sociale della crisi, salvaguardando almeno in parte la capacità reddituale delle famiglie e attenuando il crescere delle differenze sociali che questa “tempesta” ha amplificato; in definitiva può dirsi che, ancora una volta, il modello di stato sociale adottato nel vecchio continente, o almeno quello che rimane del welfare, si è rivelato una formula vincente .
- Blog di pierpaolo bagnasco
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2 commenti
sono rimasta con il mio totem in mano ad aspettarvi
piano,piano, non vi affollate!