Quanto pesano le spese per il personale sui bilanci comunali? ForumPA e openbilanci.it hanno diffuso i dati della rilevazione

letto 2649 voltepubblicato il 24/07/2014 - 13:57 nel blog di Donatella Imparato, in Osservatorio Spending Review

Quanto pesano le spese per il personale sul bilancio comunale? E, tenuto conto di tali spese, qual è il margine di manovra del Sindaco nella gestione del bilancio?

ForumPA ha diffuso i dati della rilevazione di openbilanci – – sulle spese per il personale dei comuni italiani, mostrando quanto alcune spese siano vincolanti per la gestione di un’amministrazione pubblica.

Openbilanci analizza i bilanci dei comuni italiani attraverso diversi indicatori, come: autonomia finanziaria, capacità di previsione della spesa, capacità di riscossione, equilibrio di parte corrente, investimenti, spesa per il personale, velocità della spesa, rigidità della spesa, avanzo/disavanzo.

L’indicatore relativo alla spesa per il personale misura il costo del personale dell'amministrazione comunale rispetto al totale delle spese di gestione - spese correnti ed è calcolato in percentuale. Maggiore è la percentuale, più il comune sostiene spese per il pagamento dei propri dipendenti e quindi minore sarà la capacità di manovra e la flessibilità di gestione del bilancio.

Una classifica delle 110 città capoluogo restituisce la rappresentazione della situazione del nostro paese. Mediamente i Comuni presi in considerazione spendono fra il 30 e il 40% dei propri soldi in spese per i personale. Tra i Comuni più virtuosi abbiamo Carbonia (18,50%), Prato (17,63%) e L'Aquila che utilizza solamente il 10,70% delle proprie spese nella gestione del personale. Mentre chiudono la classifica Siena (42,75%), Ferrara (44,42%) e Agrigento. La città siciliana utilizza quasi la metà (48,96%) delle proprie uscite in spese per il personale. Riguardo ai grandi Comuni, Roma è al 16° posto (23,42%), Milano (24° - 25,22%) e Venezia (33° - 26,92%). Il Comune di Napoli si attesta invece al 102° posto (38,65%), Palermo (91° - 35,77%), Firenze (88° - 34,93%) e Torino (87° - 34,90%).

Ovviamente i dati vanno contestualizzati – ogni realtà possiede le sue tipicità - e non basta prendere in considerazione solo questo indicatore per trarre conclusioni definite. Lo scopo è mettere in evidenza che quando si presenta più alta la percentuale spesa per la gestione amministrativa del Comune, meno sarà lo spazio di manovra a disposizione del Sindaco e degli amministratori per cercare di modificare, in meglio o in peggio, il bilancio comunale.

2 commenti

Roberto Formato

Roberto Formato06/08/2014 - 17:59 (aggiornato 06/08/2014 - 17:59)

A questo proposito è utile ricordare che dal dopoguerra vi è stata una progressiva crescita del ruolo delle amministrazioni periferiche nella gestione della spesa pubblica, con una quota relativa cresciuta dal 18% del 1951 al 31,6% del 2008 [Banca d'Italia, 2008].

Secondo i dati elaborati da Piero Giarda, tale aumento è stato trainato da tutte le tipologie di spesa, con l’unica eccezione delle pensioni e prestazioni sociali (rimaste competenza del “centro”). In particolare, in tale periodo è cresciuta l’incidenza degli investimenti pubblici finanziati a livello locale, che hanno raggiunto il 76,5% nel 2008, oltre i ¾ del totale [Giarda, 2011].

 

Tavola - Quota di spesa pubblica effettuata da Regioni ed Enti Locali (in percentuale)

Categoria di spesa 1951  1980  2008
Consumi pubblici  20,2  39,8  57,7
Prestazioni sociali  15,0  4,1  2,8
Pensioni  3,2  1,0  0,2
Altre prestazioni sociali 34,6 6,0 4,0
Contributi produzione e trasferimenti a imprese 11,4  26,8 61,5
Altre uscite correnti  10,0  20,7  37,9
Spese correnti al netto degli interessi  18,7  24,6  31,9
Investimenti pubblici  35,1  55,4  76,5
Trasferimenti di capitale  0,5  67,0  41,2
Totale spese capitale  19,7  59,1  62,2
Totale spese al netto degli interessi  18,9  28,8  34,5
Interessi passivi   5,5  9,8  6,3
TOTALE  18,0  26,8  31,6

 

Sotto il profilo dei bilanci, l’evento di maggiore rilievo è stato comunque il trasferimento alle Regioni della competenza in materia di tutela della salute, che fino al 1978 era interamente a carico dello stato e degli enti di previdenza. Questo è peraltro avvenuto in un contesto di aumento della spesa sanitaria, la cui incidenza sulla spesa pubblica è cresciuta dal 32,3 al 37,4% in meno di un ventennio, tra il 1990 e il 2008.

Tale incremento è stato peraltro quasi interamente compensato dalla riduzione della spesa per istruzione (+5,1% vs. – 4,8%), in uno scenario nel quale:

  • il livello di governo periferico ha complessivamente assunto un peso crescente nei consumi pubblici, passando dal 54 al 62,4%;
  • vi è stata una riduzione sensibile della quota dei servizi pubblici tradizionali (difesa, sicurezza pubblica e giustizia) la cui incidenza si è ridotta dal 15,7 al 14,1% del totale;
  • è cresciuto il peso delle altre componenti (servizi generali, ambiente, assetto del territorio, attività culturali, protezione sociale (funzioni le amministrazioni locali contano circa l’85% del totale), che hanno tutte aumentato il loro peso, passando dal 23,8% del 1990 al 25,7% del 2008.

Fonti:
• Banca d’Italia (2008). Il debito pubblico italiano dall’unità a oggi. Una ricostruzione della serie storica
• Giarda P. (2011). “Dinamica, struttura e governo della spesa pubblica: un rapporto preliminare”, Quaderni dell’Istituto di Economia e Finanza N. 104 settembre. Milano: Università Cattolica del Sacro Cuore
 

 

 

 

Carlo Pastore

Carlo Pastore06/08/2014 - 15:59

I fabbisogni standard sono il perno del federalismo fiscale introdotto dalla legge 42/2009. Per ogni servizio pubblico viene definito il giusto costo inteso non come valore assoluto bensì come quota rispetto a un totale ipotetico, che sarà di volta in volta definito dal Governo sulle esigenze di bilancio.

Nella fattispecie dei 6.702 Comuni per i quali si applicano i fabbisogni standard, il totale dei Comuni vale 1 e ciascun ente ha un valore frazionale espresso con 12 decimali. In ciascuna ripartizione delle risorse dal 2014 in poi, si dovrà considerare i fabbisogni standard e soprattutto la differenza tra la spesa storica e il fabbisogno.

Sulla base delle tabelle elaborate dal Sose, viene fuori che il Comune che spende di più in Italia è Perugia. La città di Napoli, invece, risulta in eccesso di spesa ma solo perché sui capitoli “istruzione” e “asili nido” è stato seguito il criterio della spesa storica e non quello - certamente più corretto - degli effettivi bisogni dei cittadini.

Solo i costi standard potranno salvare il bilancio dello Stato, e ritengo che sarebbe ora di fare una approfondita verifica su come si spendono i soldi nelle PP.AA. centrali; visto che negli ultimi anni sono stati le Regioni e i Comuni a dover fare i sacrifici più duri.