Pubblico impiego: PERDITA DI CHANCE da ECCESSIVA PRECARIZZAZIONE

letto 2009 voltepubblicato il 23/11/2016 - 08:48 nel blog di Simone Chiarelli, in Integrità, Servizi innovativi per il lavoro

Pubblico impiego: PERDITA DI CHANCE da ECCESSIVA PRECARIZZAZIONE

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, sentenza 29 settembre – 21 novembre 2016, n. 23691
Presidente Curzio – Relatore Fernandes
Fatto e diritto
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 29 settembre 2016, ai sensi dell’art. 375
c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
"Con sentenza del 26 marzo 2014, la Corte di appello di Firenze confermava la decisione del primo giudice
che, in parziale accoglimento della domanda proposta da R.S. nei confronti del Comune di Firenze, aveva
condannato quest’ultimo al pagamento in favore del predetto di quindici mensilità dell’ultima retribuzione
globale di fatto percepita, oltre accessori, a titolo di risarcimento danni.
Ad avviso della Corte territoriale correttamente il Tribunale aveva ritenuto la nullità del termine apposto ai
contratti di lavoro intercorsi tra il R. ed il Comune di Firenze e liquidato nella suindicata misura il danno in
favore del predetto in alternativa alla non consentita conversione del rapporto di lavoro a tempo
determinato in uno a tempo indeterminato. Precisava che tale danno per avere una funzione dissuasiva del
ricorso alla contrattazione a termine ben poteva coincidere con le quindici mensilità previste dall’art. 18
dello Statuto dei Lavoratori nel caso in cui il lavoratore, avendo diritto alla reintegra nel posto di lavoro, vi
aveva rinunciato.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il Comune di Firenze affidato a due motivi.
Resiste con controricorso il R. .
Con entrambi i motivi si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 36 d.Lgs. n. 165/2001, 18, comma
5 (nel testo vigente fino al 17.7.2012) e comma 3 (nel testo vigente dal 18.7.2012) legge n. 300/1970, 5, co.
12, del D.L. n. 207/1978 conv. in legge n. 3/1979 e 32, co.5, legge n. 183/2010 nonché dei principi in
materia di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo (primo e secondo
motivo) e di eguaglianza, uniformità di trattamento, proporzionalità e graduazione delle sanzioni (secondo
motivo).
Si assume (primo motivo) che la Corte di appello aveva liquidato il danno pur in mancanza di qualsiasi
allegazione e prova da parte del R. in ordine al pregiudizio economico derivatogli dalla stipula dei contratti
a tempo determinato. Si sottolinea che non sarebbe configurabile un danno "in re ipsa" e, tantomeno,
come automatico ristoro a fronte della mancata previsione legislativa della conversione del contratto e,
comunque, viene evidenziato che la norma di riferimento non poteva essere quella dell’art. 18 dello Statuto
dei Lavoratori, bensì, l’art. 36 del d.Lgs. n. 165/2001 che prevedeva uno specifico sistema sanzionatorio,
calibrato sulle esigenze del pubblico impiego e funzionalizzato al risarcimento del danno effettivo da
provare e risarcibile anche in via equitativa.
Si deduce, altresì, (secondo motivo) che l’utilizzo del parametro previsto dall’art. 18, co.5, L. n. 300/1970 in
luogo del sistema previsto dall’art. 36 cit. avrebbe comportato l’applicazione di un uguale trattamento
risarcitorio a situazioni diverse in violazione dei principi in tema di uguaglianza e graduazione della misura
risarcitoria.
Entrambi i motivi, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono fondati alla luce della recente
sentenza delle sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 15 marzo 2016, n. 5072).
È stato innanzitutto chiarito che l’obbligo del concorso pubblico ed il conseguente divieto di conversione
del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche
amministrazioni consentono di collocare fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del
rapporto. Questa è esclusa per legge e tale esclusione - come detto - è legittima sia secondo i parametri
costituzionali sia secondo quelli Europei. Non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma
non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte
delle pubbliche amministrazioni. Quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato
perché una tale prospettiva non c’è mai stata.
Come è stato precisato, il danno è altro.
Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità
della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale
fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem,
subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi.
Si può ipotizzare una perdita di chance (qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute
essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo
indeterminato); ma neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto
al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore.
Tuttavia l’esigenza di conformità alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del
Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e (TEP sul lavoro a tempo determinato) richiede, in
analogia con la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, costituita
dall’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 di individuare la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela
del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’esonero dalla prova
del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo. Ad avviso
delle sezioni unite, "la trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata
sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi
come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655) nel senso che
vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza
esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad
essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità
costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si
estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perché - si ripete - la
mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale,
e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione.
I stato così conclusivamente affermato che: "Il lavoratore pubblico - e non già il lavoratore privato - ha
diritto a tutto il risarcimento) del danno e, per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede
l’interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per
essere egli, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5.
Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati
contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato".
Alla luce di quanto esposto si propone l’accoglimento del ricorso, la cassazione dell’impugnata sentenza
con rinvio ad altro giudice di merito che deciderà la causa adeguandosi al seguente principio di diritto: "Nel
regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo
determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima
precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto
di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001
n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio
nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura
pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604"; il tutto
con ordinanza ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5".
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione
della presente udienza in Camera di consiglio.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis, co. 2, cod. proc. civ. (nel caso del Comune si
tratta di memoria adesiva).
Osserva il Collegio che il contenuto della sopra riportata relazione sia pienamente condivisibile siccome
coerente alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfito dalla memoria ex art. 380 bis cod. proc.
civ. depositata dal controricorrente con la quale quest’ultimo insiste nella prospettata eccezione di
inammissibilità del ricorso per avere il Comune omesso ogni riferimento al proprio atto di appello ed ai
rilievi in esso formulari così da non consentire di comprendere se i terni posti con il ricorso per cassazione
fossero stati già in precedenza sottoposti al vaglio della Corte territoriale. A tal riguardo va rilevato che le
censure di cui al ricorso, come in relazione puntualmente riassunte, danno adeguatamente conto dei rilievi
mossi alla decisione impugnata ed alle soluzioni da questa date alle questioni sottoposte alla sua attenzione
con l’atto di appello. Del resto, come si evince sia dal contenuto della sentenza della Corte territoriale sia
dal ricorso per cassazione, tali questioni avevano riguardato i due capi della sentenza di primo grado
implicanti la soccombenza del Comune - e cioè quello riferito alla riscontrata illegittimità del termine
apposto ai contratti a termine e quello relativo all’accoglimento della domanda risarcitoria -, in quanto
reputati erronei c gravemente punitivi per il Comune medesimo.
Alla luce di quanto esposto, il ricorso va accolto e va cassata l’impugnata sentenza, con rinvio anche per le
spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa
composizione, anche per le spese del presente giudizio.