Foia, nel Regno Unito le PA sanno come comportarsi

Nel Regno Unito un apposito diagramma di flusso di gestione della richiesta riporta con dettaglio e certezza, passo dopo passo, il percorso di comportamento che la P.A. deve rispettare a seconda del verificarsi di specifiche circostanze per valutare e infine determinare se sia possibile, o meno, rilasciare le informazioni richieste

Foia, nel Regno Unito le PA sanno come comportarsi

4 commenti

francesco addante

francesco addante26/02/2017 - 21:12

Buona sera GianLuca

non posso che essere daccordo con te, prima ancora che informatizzare occorre cambiare cultura, organizzare i processi, reingnerizzarli, far leva sulle competenze, sulla formazione, sull'impegno e la volontà di attuare davvero un reale cambiamento e questo dipende da chi è nella stanza dei bottoni, se non cambia quello, non cambierà mai nulla.. Eppure, secondo il mio modesto parere, anche in assenza di tutte queste condizioni è comuque necessario stabilire un percorso preciso da seguire che possa portare mano mano la P.A. ad individuare il giusto sentiero a seconda delle diverse circostanze che si possono venire a creare..

Nel Regno Unito improntato ad una cultura di common law, di efficienza, di velocità di decisione, di semplicità, le richieste sono tutte canalizzate e tracciabili, ripercorribili informaticamente in modo tale da recuperare e intraprendere comportamento corretto su situazioni analoghe che è possibile individuare proprio perchè è possibile trovarle in un sistema informatizzato che funziona, che è semplice, che da veri risultati.. ed è tutto online.

Un esempio invece in Italia ? Ho appena concluso un'indagine sul comportamento assunto da 10 Ministeri rispetto ad una stessa richiesta di (neo) accesso civico generalizzato inoltrata loro via PEC... ebbene il 90% l'ha rigettata perchè, probabilmente devono ancora sperimentare un modello comportamentale che sia adatto ad un sistema che davvero si possa veramente chiamare FOIA. Le linee guida ANAC al riguardo lasciano ancora molti spiragli e le P.A. non sanno come comportarsi.. certo siamo ancora in una fase embrionale.. ma proprio per questo motivo chi bene comincia è a metà dell'opera !

Grazie per il tuo prezioso contributo riflessivo

 

 

Gianluca Passaro

Gianluca Passaro27/02/2017 - 01:23 (aggiornato 27/02/2017 - 01:23)

Caro Francesco,

grazie a te, per la tua replica - e per aver preso in considerazione la mia riflessione per un ulteriore approfondimento sul tema. Corre l'obbligo, per me, di chiarire un punto: il mio non voleva essere un "dissenso", rispetto agli inizi di un processo, quanto appunto una "provocazione", più operativa che intellettuale, proprio sul riferimento da te scelto come possibile esempio. Una provocazione sul piano del metodo. Come ho avuto modo di commentare anche su altri temi (es. la comunicazione e la usabilità dei siti web delle PPAA), la mia riflessione si propone di illuminare il rischio di andare fuori traccia. Ritengo, come ho detto, che il cambiamento culturale ed il lavoro sulle consapevolezze debba essere l'obiettivo e non il mezzo. E quindi, cultura e consapevolezza non come strumenti necessari (e non sufficienti) alla attuazione delle disposizioni normative, quanto piuttosto presupposto perché queste ultime siano, correttamente recepite e, possibilmente, attuate. Un esempio concreto? Uscire dalla logica dell' "adempimento"... . Se continuo ad offrire opportunità di "progresso" (leggilo nell'accezione pasoliniana versus "sviluppo") che vengono interpretate riduttivamente come necessità di adempiere ad una norma, non realizzerò mai né innovazione né il conseguente cambiamento. Da qui anche il senso degli esempi su Privacy e gestione documentale che proponevo. E anche la tua ricognizione sul livello ministeriale in merito al FOIA lo conferma: se mancano gli strumenti per l'adempimento... non si adempie. Dunque il problema, forse, sta proprio nell'approccio a quel "qualcosa di nuovo" che anche il FOIA rappresenta.

Ecco perché vedo un rischio nel proporre anche se solo a titolo esemplificativo modelli che sono lontanti per caratteristiche dell'ordinamento (common law, giustamente sottolinei) prima ancora che per comportamenti. Vedo lo stesso rischio nel proporre "modelli" e soluzioni che appartengono a linguaggi e prospettive che non sono della (nostra) Pubblica Amministrazione. Trovo, potenzialmente (e posso sbagliarmi) più produttivo provare a capire e lavorare su quali siano i fattori che nel nostro ordinamento, e con i nostri strumenti, consentano di recepire e di attuare innovazioni radicali come quelle di cui parliamo. Trovo più produttivo superare le pur frequenti lacune, e talvolta le aporie, di una produzione normativa spesso frettolosa provando a costruire una visione di insieme, piuttosto che concentrarmi sul singolo dettaglio "attuativo". E sono convinto che questa visione di insieme sia possibile e sia perfettamente segnata dalla pur perfettibile produzione normativa. Su questa visione di insieme vanno analizzate e costruite le competenze. Che, dal punto di vista della Pubblica Amministrazione, non dovrebbero essere né "verticali" né specialistiche - di altro, intendo, che non sia la species dell'azione amministrativa su tutti i livelli dell'ordinamento.

Torno a dire che il tuo è un lavoro meritorio. E il mio intervento, oltre a sottolinearlo, vuole solo evidenziare il rischio che il merito di guardare a "modelli" diversi non deve essere confuso con la ricerca di una soluzione in quegli stessi modelli.

Spero di avere presto l'occasione di confrontarmi, costruttivamente, ancora con te - e auspico che a questa discussione possano aggregarsi anche altri frequentatori delle nostre Comunità (una parola che considero "alta" e che negli ordinamenti di common law è sicuramente uno dei pilastri del progresso).

Buon lavoro!

francesco addante

francesco addante27/02/2017 - 20:30

Gianluca.. condivido pienamente la tua riflessione.. tuttavia mi chiedo, anche, se questo cambiamento potrà mai aver luogo.. tutto giusto.. ma rimango sempre dell'idea che occorre rinnovare totalmente la P.A. con gente giovane.. che ha voglia di credere.. di fare, di costruire e veda il proprio lavoro come una missione per migliorare la società.. e avere la soddisfazione di aver contribuito nell'aver fatto qualcosa di buono per il bene comune.

Fino a quando non avverrà questo.. a mio avviso è inutile parlare di cambiamento, di obiettivi,  perchè è prima di tutto la componente umana a fare la differenza, perchè è quella che decide.. e senza una vera voglia di innovarsi e rinnovarsi.. qualsiasi progetto non ha senso perchè non verrà mai realizzato..

Quindi.. sono perfettamente daccordo con te ma nella misura in cui questo sia davvero fattibile... e nel frattempo che accada qualcosa di davvero straordinario.. vado avanti nel cercare modelli da seguire che possano essere ripercorribili soprattutto da chi verrà dopo di noi..  in modo che trovano già qualcosa da sperimentare.. magari quando il cambiamento tanto atteso vedrà effettivamente e finalmente la luce ...

Grazie per le tue rilevanti riflessioni e per la tua attenta e  preziose attenzione.. buon lavoro a te

 

 

 

 

Gianluca Passaro

Gianluca Passaro25/02/2017 - 20:46

Caro Francesco, trovo assolutamente istruttivo e di profondo interesse la "prospettiva comparata" che proponi in questi più recenti interventi, e personalmente ne còlgo anche la provocazione non solo intellettuale. Vorrei però, a margine - e nello spirito collaborativo che informa queste Comunità -, introdurre una ulteriore riflessione di metodo. Qual è, o può essere, la "lezione da apprendere"? Mi piace dirla in italiano, anche se il contesto della comparazione giustificherebbe la dizione di "lesson (to be) learnt". In particolare, il tema della ingegnerizzazione di una o più procedure atte a disciplinare in maniera univoca e condivisa (sul piano dell'organizzazione interna e verso l'utenza esterna) input e output dell'accesso universale ricorda da vicino altri contesti, dove non sono mancate prassi, siano "buone" o "cattive" - prendendo a parametro della qualificazione il successo o l'insuccesso delle stesse.

Due esempi.

Il primo. Dieci anni or sono, più o meno, ci si confrontava nelle Pubbliche Amministrazioni con i Regolamenti in materia di Privacy: come disciplinare l'accesso alle informazioni, quali procedure seguire in ragione od in forza del diritto prevalente secondo il contesto, come risolvere sul piano operativo la dicotomia tra comunicazione e diffusione, e così via. Trascurando, (troppo) spesso, quella "bussola" che la stessa evoluzione della norma portava con sé, e di quella stessa bussola che, direi di più, informava l'intero impianto normativo del D.Lgs 30 giugno 2003, n. 196: l'evoluzione cioè dal "diritto alla riservatezza" dei dati personali al "diritto di garanzia" alla tutela cioé tramite informazione e conoscenza di come quei dati personali vengano trattati ed utilizzati (nella fattispecie, per l'attività amministrativa). Un'evoluzione le cui tappe riflettono l'antitesi "nativa" tra il significato di Privacy nella cultura giuridica di oltreoceano ed in quella anglosassone prima ed europea poi - e che ha origine comune nel principio di libertà, libertà di riservatezza e libertà dal (l'eventuale abuso di) controllo del potere, anche pubblico. Un principio che si completa, evidentemente nei FOIA con la libertà di sapere, e di conoscere, e che ha più a che fare con il "controllo civico" e con il senso di comunità che lo ispira. Ma, tornando al punto: l'approccio alla ingegnerizzazione di procedure input/output può davvero rappresentare una lezione da apprendere, anche solo sul piano operativo? Nel disciplinare la materia della Privacy, nei suoi profili operativi, questo approccio non mi sembra sia salito alle cronache come un evidente caso di successo (ma resto pronto ad essere smentito!). Anche guardando alla sola attività amministrativa degli Enti Locali come "terreno" esemplificativo (il terreno che professionalmente frequento e conosco meglio, per poterne parlare), le variabili da considerare sono troppe per essere formalizzate in un diagramma di flusso. E se il diagramma prevedesse opzioni troppo astratte sarebbe evidentemente svuotato di ogni utilità pratica. Dunque perché, chiedo, sul piano del metodo, una formalizzazione ingegneristica come approccio alla operatività del FOIA (in Italia) dovrebbe rappresentare una buona pratica?

Il secondo esempio. Il termine "Workflow", il diagramma di flusso di cui a questa mia riflessione sul metodo, è sdoganato sullo scenario delle PPAA dalla dimensione più o meno specialistica dove era coltivato grazie al DPR 28 dicembre 2000, n. 445, il noto Testo Unico sulla documentazione amministrativa, e nello specifico per quanto all'introduzione dei sistemi di protocollo informatico e gestione documentale. Senza richiamare il fondamentale trattato di Eugenio Casanova ("Archivistica", Siena, 1928 - purtroppo in formato digitale) e la sua considerazione "(...) nulla sfugge al protocollo; tutto vi si dispone in ordine per essere trattato e risolto, tutto vi si conclude. È lo schema della storia dell’ente (...)", cui sarebbe sufficiente rifarsi per ritrovare una antica e forse tutt'ora non risolta centralità del tema, è ragionevolmente innegabile che l'intervento del DPCM 3 dicembre 2013 in materia di protocollo informatico e il rinvio sine die sull'attuazione di queste regole tecniche scoprano un vulnus più culturale, che non operativo. Dacché, temo, non già di difficoltà in ordine al recepimento di "regole tecniche" si tratti, quanto piuttosto della vera chimera organizzativa e, appunto, culturale. In definitiva, cito questo secondo esempio perché se l'approccio ad una formalizzazione "tecnica" così centrale per il funzionamento dello schema della storia dell'Ente (io condivido e faccio mia la definizione di Casanova) incontra ancora resistenze così profonde, probabilmente la strada da seguire deve essere diversa. Aggiungo poi che sarebbe sufficiente (sic!) una reale organizzazione di archivi e flussi documentali per soddisfare qualsiasi approccio all'accesso ed alla trasparenza, senza dover ricorrere a strumenti e procedure ridondanti.

In conclusione: capisco e, in parte, condivido anche la prospettiva enunciata da dichiarazioni e documenti strategici sul tema della "automazione" di procedimenti amministrativi, e dunque procedure di lavoro, a basso impatto discrezionale nella Pubblica Amministrazione, come sintetizzato nel claim "" ovvero "meno léggi e più software" (e si veda anche il ). Resto tuttavia convinto, però, che in determinati ambiti - e il FOIA è, nella mia prospettiva, uno di questi - la "soluzione" non sia da ricercare né nella formalizzazione di specifiche procedure, né nei bit, né - tantomeno - in "applicazioni" in grado di determinare automatismi. Resto convinto che "automazione" non è antònimo di "burocrazia", nella sua, negativa, connotazione di deriva bizantina e dunque di ostacolo all'esercizio dei diritti. Resto convinto che in determinati ambiti, e il FOIA è uno di questi, la consapevolezza sull'introduzione di un diritto da un lato, e la consapevolezza di un ruolo, professionale e civile, dall'altro debbano rappresentare i pilastri sui quali poggiare competenze che originino le prassi. Anzi direi consapevolezze sulle quali costruire, prima che appoggiare, le competenze: e non può - né, forse, deve - essere il contrario nel contesto della Pubblica Amministrazione. Il che è molto, ma molto più complicato che ricercare una qualche soluzione, o approvvigionarsi di una qualche competenza, "pratica" e/o operativa, me ne rendo conto (o per parafrasare me stesso, ne sono "consapevole", appunto). Molto complicato. Ma indispensabile, per generare un concreto cambiamento - il cui impuslo regolatorio non può non essere il Diritto.