I tempi dilatati e lo spazio ristretto delle donne. Passato e futuro nello smart working

Nel Cinquecento, il Mediterraneo era largo una settimana e lungo un mese. Questa dimensione del tempo per misurare lo spazio la utilizza Fernard Braudel nel ripercorrere la storia dei commerci. Lo navigavano gli uomini questo spazio del mare, così come erano uomini coloro che attraversano gli spazi delle strade. Lo facevano per bisogno, per ambizione, per curiosità, per difendersi o per attaccare. Le donne no. Le sporadiche volte in cui si mettevano in viaggio era in pellegrinaggio per fede, per raggiungere la nuova famiglia maritale, per accudire parenti ammalati.

Lo spazio “esterno”, quello pubblico, quello fuori casa, è stato, tradizionalmente, riconosciuto come spazio degli uomini. Territorio di lavoro, mobilità, socialità e visibilità. Lo spazio “interno”, invece, quello privato, quello domestico è, per consuetudine storica e patriarcale, lo spazio delle donne. Territorio di riservatezza, famiglia, cura.

La strutturazione del tempo e dello spazio, connotante il vivere sociale, è ridefinito oggi alla luce della diffusione delle innovazioni tecnologiche. Ma la destrutturazione di questi due concetti rinnovati dalla rivoluzione digitale – il tempo dilatato e lo spazio ristretto – rischiano di impattare in maniera dirompente sulla vita delle donne, sui nostri tempi sovrapposti, concitati, anticipati o ritardati, e sui nostri spazi pieni, vuoti, affollati, isolati, troppo vicini o troppo lontani.

In questi ultimi anni la diffusione delle nuove tecnologie sta cambiando radicalmente la quotidianità professionale di una fascia di popolazione, quella che non ha la necessità di impegnare direttamente e a volte rischiosamente – come queste giornate di emergenza sanitaria hanno reso più evidente - il proprio corpo nei luoghi tradizionali di lavoro: fabbriche, ospedali, negozi.

Questo sta rendendo sempre meno definito lo spazio fisico in cui lavoriamo e sempre meno apparentemente codificato l’orario di lavoro. Non solo smart working e telelavoro, ma anche nomadi digitali e lavori ibridi in cui sono difficilmente rintracciabili le sedi e gli orari di lavoro e così pure gli ambiti di autonomia, le possibilità di crescita, il riporto gerarchico, la comunità professionale di appartenenza e, di conseguenza diritti, doveri, ambiti di difesa e di rivendicazione.

Ma questo tipo di cambiamento organizzativo é neutro rispetto al genere oppure ha un impatto differente per uomini e donne? E se l’impatto è differente, mitiga o amplifica le disuguaglianze e le possibilità di ciascuno?

Se le donne da sempre rivendicano maggiore flessibilità per poter conciliare tempi di vita e tempi di lavoro, non si può che considerare positivamente ciò che ci consente di lavorare “ovunque e in qualsiasi momento”. Ma se l’”ovunque e in qualsiasi momento” diventa invasione non fronteggiabile solo con il diritto alla disconnessione – pure in via di riconoscimento diffuso - diventa importante capire come gestirlo.

E non è questo l’unico effetto della destrutturazione del tempo e dello spazio. Altri, e meno immediatamente percepibili effetti, potrebbero manifestarsi.

Il lavoro agile, allora, potrebbe essere sì, per le donne, conquista di nuovo tempo ma rischia di essere anche perdita del proprio spazio. Quello spazio nel quale attività professionale retribuita, lavoro di cura, aggiornamento formativo e risposta continua e interattiva alle necessità familiari rischiano di affollarsi nello stesso spazio con gradi di priorità che potrebbero – nel medio e lungo periodo – diventare nuovo paradigma di meccanismi di esclusione da quel mondo “esterno” che è socialità, mobilità e visibilità.

E, ancora, come estendere nell’operatività alla specificità dello smart working le norme – che pure sono legislativamente avanzate - in materia di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro e quelle sulla protezione dei dati personali?

I dispositivi che utilizziamo - tablet, cellulari, piattaforme di condivisione, sistemi di videoconferenza – producono un’immensa quantità di dati che tanto dicono non solo del lavoro che svolgiamo, ma anche di chi siamo, soprattutto se vengono incrociati con la mole di tracce digitali che rilasciamo costantemente, generata da transazioni economiche, relazioni personali sui social, siti che visitiamo, acquisti online, applicazioni.

Grazie agli algoritmi è oggi possibile incrociare ed interpretare informazioni che, codificate, fotografano gusti, opinioni, abitudini di vita e di consumo, storia medica e affidabilità finanziaria, relazioni e programmi di maternità. E questo può dar luogo a nuove discriminazioni di genere che si sommano a quelle vecchie e consolidate.

Senza voler demonizzare la tecnologia e gli usi che se ne possono fare, è evidente la difficoltà, e non di meno la necessità, di governare in corsa un processo che pure per le donne potrebbe consentire nuove e reali opportunità. La necessaria precondizione è lo sviluppo della consapevolezza che bisogna guardare alle innovazioni e alla tecnologia anche con ottica specifica dal punto di vista delle donne. Per incidere sui reali processi decisionali, sulla generalizzazione che genera parzialità, sugli automatismi che perpetuano discriminazioni, sui nuovi anacronismi dei tempi e le nuove chiusure degli spazi.

Magari per scoprire che, se i paesi che hanno meglio gestito l’emergenza sanitaria risultano essere governati da donne, la leadership femminile non è la causa di una migliore gestione quanto l'effetto. Perché sistemi nei quali si può sviluppare e affermare la leadership democratica delle donne sono contesti che hanno scelto struttura organizzative, di welfare e di sostegno che consentono di evitare meccanismi di esclusione per genere e pertanto sono più efficienti.